Alessandro Laviano è Professore Associato di Medicina Interna presso il Dipartimento di Medicina Traslazionale e di Precisione della Sapienza Università di Roma. Oggi svolge anche attività assistenziale presso la unità operativa di Medicina Interna e Nutrizione Clinica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico Umberto I di Roma. E’ Editor in Chief della rivista Nutrition e recentemente ha firmato uno studio relativo a rapporto tra nutrizione e Covid-19. Per saperne di più siamo andati ad intervistarlo.

Professore perché e in che senso la nutrizione è un fattore determinante per la salute, lo è anche per l’attuale pandemia Covid-19?

La nutrizione, intesa sia come stato nutrizionale che come adeguato apporto di nutrienti, è una componente fondamentale dello stato di salute. Ma non solo, in quanto la nutrizione è anche componente della terapia di tutte le patologie acute e croniche. Ogni approccio curativo infatti si compone di due aspetti: le terapie che agiscono direttamente sulle cause della malattia (es., farmaci, interventi chirurgici) e le terapie di supporto che mirano a lenire gli effetti sistemici della malattia. Ad esempio, per una polmonite batterica, la terapia causale è rappresentata dagli antibiotici, ma la terapia di supporto è anch’essa importante in quanto riduce la febbre o migliora l’ossigenazione del sangue o sostiene le richieste metabolico-nutrizionali per montare una adeguata risposta immune. In poche parole, la terapia di supporto aiuta la terapia causale ad essere più efficace, migliorando contemporaneamente la qualità di vita del paziente. La terapia di supporto, di cui è parte integrante la terapia nutrizionale, diventa fondamentale soprattutto laddove non esiste una terapia causale, come stiamo osservando ora nel corso della pandemia da Covid-19. Per fare un esempio, la ventilazione meccanica invasiva spesso utilizzata in terapia intensiva è anch’essa terapia di supporto, non agendo direttamente sul virus, ma aiutando il paziente a respirare ed a sopravvivere.

Nell’articolo su Nutrition si parla di Covid-19 e comorbidità di tipo metabolico, come sindrome metabolica, diabete e obesità. Ecco, Professore qual è il rapporto tra queste patologie e l’innesco e aggravamento delle infezioni da coronavirus?

Tra i pazienti con Covid-19, la contemporanea presenza (i.e., comorbidità) di obesità è di frequente riscontro. Inoltre, i pazienti obesi sono quelli maggiormente esposti ad una progressione della infezione verso stadi più gravi fino al ricovero in terapia intensiva. La suscettibilità del soggetto obeso all’infezione da Sars-CoV2 ed allo sviluppo di forme più gravi può dipendere da una serie di fattori. Innanzitutto, l’aumento della massa grassa riduce la meccanica respiratoria e facilita l’insorgenza di polmoniti. Inoltre, il soggetto obeso presenta una contemporanea riduzione della massa muscolare (i.e., obesità sarcopenica) che riduce la funzione dei muscoli respiratori. L’obesità è anche associata spesso ad alterazioni del metabolismo glucidico, fino al diabete, che può favorire le infezioni. Infine, l’obesità è una condizione di aumentata risposta infiammatoria, che potrebbe favorire la “tempesta citochinica” tipica delle fasi più gravi di Covid-19.

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Nell’articolo si parla anche di indicazioni della National Health Commission cinese relative ad integrazioni nutrizionali per garantire un apporto energetico ottimale ai pazienti Covid. Di quali nutrienti stiamo parlando e quali sono i risultati emersi finora?

Ad oggi, possiamo solo dire che un’adeguata alimentazione è importante per la prevenzione, trattamento e recupero di Covid-19. Come declinare questa raccomandazione generale nelle varie fasi della malattia è un po’ più complicato. Buone indicazioni sono disponibili per i pazienti in terapia intensiva, per i quali si utilizzano protocolli consolidati di nutrizione artificiale tramite sonda o tramite accesso venoso, essendo quasi sempre preclusa l’alimentazione. In ogni caso, appare necessario, anche se non confermato univocamente da studi scientifici, non solo fornire calorie e proteine, ma anche alcuni micronutrienti, quali vitamine e oligoelementi (es., selenio, rame, zinco, magnesio, etc.) che fungono da componenti di enzimi deputati alla protezione dei nostri tessuti in condizioni critiche. Un discorso particolare riguarda la vitamina D, notoriamente deficitaria in larga parte della popolazione non solo italiana, e dunque anche nei pazienti Covid-19. Il deficit di vitamina D appare essere associato a diversi eventi clinici negativi, e molti protocolli di trattamento nutrizionale di pazienti Covid-19 oggi includono supplementazioni di essa, soprattutto nelle fasi precoci di malattia allo scopo di rallentare e forse bloccare la progressione verso forme più grave. Ovviamente solo il tempo ci dirà se questo approccio sarà stato efficace. Sempre allo scopo di “raffreddare” la malattia ed evitarle di progredire, è in corso di valutazione la possibilità di utilizzare nelle fasi precoci dosi sopra-fisiologiche di acidi grassi della classe omega-3, dalla nota azione modulante la risposta infiammatoria. In effetti, la risposta infiammatoria va intesa come un meccanismo difensivo che diventa dannoso solo quando supera i limiti fisiologici. Sempre nelle fasi precoci di Covid-19, è in corso di valutazione il possibile ruolo protettivo della dieta chetogenica, per la sua azione anti-infiammatoria. D’altro canto, la necessità di trasformare i lipidi della dieta chetogenica in glucosio aumenta il lavoro ad esempio del fegato, potendo favorire la comparsa di eventi avversi. Questi ultimi sono poi più frequenti nei pazienti Covid-19 dal momento che si tratta di una malattia sistemica, non solo limitata al polmone. Ancora una volta, solo i risultati delle ricerche in corso ci diranno se sono approcci da inserire negli standard di cura.

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Molte pubblicazioni scientifiche sono concordi nell’affermare che l’aggravamento fino al decesso per l’infezione da coronavirus è anche da attribuire ad una grande ed importante infiammazione sistemica. Ecco, quanto incide l’alimentazione quotidiana e l’eubiosi intestinale precedenti all’infiammazione su questo fattore?

La nutrizione e l’alimentazione possono contribuire notevolmente alla terapia ed alla prevenzione di Covid-19. Ma non sostituiranno mai i dispositivi di protezione individuale né il distanziamento sociale. Ad esempio, l’obesità è una frequentissima comorbidità in corso di Covid-19. Dunque, per ridurre il rischio di contrarre Covid-19, può essere appropriato mettere sotto controllo il proprio peso. Ma come perdere il peso in eccesso? Ci sono varie opzioni di restrizione calorica. La più studiata è senz’altro la dieta mediterranea, patrimonio immateriale dell’umanità, che prevede, tra le varie raccomandazioni, l’assunzione preferenziale di proteine di origine vegetale e cereali non raffinati. La dieta mediterranea contribuisce al mantenimento di uno stato di salute e di una adeguata difesa immunitaria. Strategie alternative comprendono la dieta chetogenica che potrebbe adattarsi alle necessità di prevenzione riducendo lo stato infiammatorio generale, e contribuendo all’equilibrio glicometabolico. La dieta chetogenica la conosciamo bene, sono anni che viene utilizzata ad esempio per l’epilessia del bambino quando questo non risponde ai farmaci. 

Di grande interesse, anche se per ora non affrontato nella prevenzione e trattamento di Covid-19, è il ruolo delle popolazioni batteriche che colonizzano il nostro intestino (i.e., microbiota). Solidi studi scientifici dimostrano che il microbiota è importante per la risposta immunitaria e dunque potrebbe contribuire a prevenire l’infezione da SARS-CoV-2. Ma si può identificare una particolare composizione di popolazioni batteriche intestinali che dia per se una maggiore risposta immunitaria e che dunque possa essere trapiantata nell’intestino di ognuno di noi? Purtroppo, non lo sappiamo. Il vero problema consiste che ancora non capiamo quale composizione batterica rappresenti la cosiddetta eubiosi rispetto alla disbiosi. Infatti, ogni individuo ha la sua eubiosi. In alter parole, una determinata composizione può essere efficace per un soggetto, ma non necessariamente per gli altri. Ad oggi non riusciamo a sapere qual è la migliore composizione dei batteri che ci può dare maggiore protezione, ma di certo una dieta sana migliora anche il nostro intestino.

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Secondo lei esistono degli approcci nutrizionali per ogni fase della malattia? Prima dell’infezione, durante l’infezione e al superamento della stessa. 

Nel paziente ospedalizzato chiaramente è differente la situazione. Per ciò che concerne la prevenzione ancora una volta la dieta mediterranea appare superiore e può essere intervallata da cicli di chetogenica. Se un soggetto ha problemi di peso, per ridurre il rischio di infezione nelle prossime ondate pandemiche deve iniziare a lavorare sulla perdita di peso. Sappiamo che la dieta chetogenica non è tossica, ma vanno tenuti presenti aspetti importanti come l’età e le comorbidità. Dunque, la raccomandazione è che in caso di utilizzo di diete estreme come la chetogenica, il controllo medico è indispensabile. I nutrienti vanno usati bene e con oculatezza, sotto controllo. Basta ricordare ciò che accadde con la curcuma, considerata la soluzione per dimagrire con facilità, ma che portò episodi di epatite acuta.

Che ne pensa della proposta di questo gruppo di Napoli che parla di una possibile applicazione di una dieta chetogenica ai pazienti affetti da covid? 

Sicuramente è una possibilità. Resta da capire quanto possa essere sicura. I pazienti Covid-19 vengono ricoverati per fame d’aria, per dispnea e spesso hanno bisogno di una ventilazione non invasiva che rende difficile l’alimentazione. Per loro mangiare e bene sono delle vere e proprie sofferenze per questo per questi pazienti si parla di nutrizione artificiale.